La materia immateriale di Stephen Knapp

Giorni fa, verso il tramonto, vicino al mare, seduta in un bar dalle inusuali vetrate policrome, mi sono ritrovata immersa in una strana luminosità che assumeva trasparenze e pregnanze attraverso una parabola di geometrie traslate. Una composizione derivata dalla scomposizione prismatica, capace di generare un’atmosfera in cui ambiente, pensiero e percezione estetica si fondevano in simultaneità, ubiquità, coesistenza. Una inaspettata sorpresa visiva, che mi ha prontamente dirottata nell’arte, nella precisa coincidenza e rievocazione di altre, geniali e ancor più seducenti, bande radianti in fuga: quelle di Stephen Knapp. Così, dal banale gustare un gelato all’assaporare col ricordo e la consapevolezza un degno esempio di creatività contemporanea, il passo è stato breve, perché breve, nel senso di immediato, è il processo ricettivo, è il coinvolgimento dei vari livelli: dalla natura al costruito, dall’aspetto fisiologico e sociale a quello psicologico e mnemonico, dall’istinto alla cultura, per una presa di coscienza nell’assoluta compiutezza dell’essere.

Stephen Knapp, dicevo, americano originario del Massachusetts, scomparso nel 2017 all’età di settant’anni. È nella maturità artistica che Stephen, dopo diverse molteplici e altrettanto valide esperienze, ha iniziato una appassionata e originale ricerca legata alla luce e a componenti vetrosi che potessero interagire con essa; il tutto anche in dialettica plastica con l’architettura. Una luce, la sua, riconvertita in pigmento volatile e insieme voluminoso. Una luce a tagli, a lame, che sciabolando l’aria e le pareti si propagano materializzandosi.

I Lightpainting di Stephen Knapp

Egli stesso ha etichettato i suoi lavori lightpainting. Vero: sono affreschi lucenti. Nei quali, pur rinunciando a contenuti narrativi, riesce a imprimere un’idea, un altrove ricco di spunti e richiami. In una sorta di figurazione cosmica, crea icone rampanti, totem graffianti capaci di affidare al fruitore misure e verità alternative. Ascensionali o diagonali, le proiezioni e le rifrazioni, in una storia sintetica di schegge acuminate e inflessibili, dipingono un mistero astratto, una suggestione di bellezze siderali.

La tecnica utilizzata da Knapp è arguta e astuta: si serve di piccoli pannelli di un vetro particolare che lui incide, sagoma, lucida e riveste di sfoglie metalliche in grado di funzionare in qualità di prismi selettivi, a loro volta in grado di frammentare la luce focalizzata in diverse lunghezze d’onda dello spettro. L’esito è stupefacente: intangibile eppure fortemente concreto.

Impossibile designare un’appartenenza univoca. Malgrado le sue configurazioni inglobino spazio, cromia e luce, cioè elementi che caratterizzano pittura, scultura e installazione, di fatto restano indefinibili, si stagliano nel panorama delle discipline artistiche come uniche, preziosamente ambigue. Raffinatamente complesse e frutto anche di precisione tecnica e strutturale.

A tratti le tonalità appaiono velate, a tratti si effondono sature e traslucide, sempre frutto di inconsistenti raggi che, magistralmente passanti per i famosi vetrini trattati, si fanno imprevedibilmente arditi, centri di forza, eloquenze estrose.

Siamo decisamente in una nicchia quasi chimerica, illusoria, nell’orma di un’avanguardia colta e spiazzante, per quelle “sembianze” (perché tali sono) ingannevoli, quelle grafie evaporabili ma salde come tempere, quella sintesi tra scienza e arte, ovvietà e arcano. Quando poi, Stephen Knapp, decide di incorniciare la deflagrazione dinamica dei suoi lightpainting, al fine di renderla ancora più prorompente e fervida, interviene con riquadri laminati neri, rettangolari, severi. Ecco, allora, che il nucleo dell’opera erompe, in un guizzo velocissimo risucchia e ci autorizza a un rapimento pieno di fragranti emozioni e nostalgie di cose sconosciute e avvicinabili, quasi che in un istante si potesse vivere tutto il tempo che scorre. E, per giunta, con lo stupore felice di un bambino.

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