DI BIANCO IN NEVE - Romanzo - Armando Curcio Editore
Copertina del libro
Rossana Fiorini
Di bianco in neve - Romanzo
Armando Curcio Editore
SINOSSI
spirito indocile e creativo, si dibatte Viviana, giovane artista. Incompresa e poi persino vessata dal compagno, cerca riscatto, ravvisando in un anziano compositore e nel loro struggente attrarsi e amarsi, un’autentica ineluttabile consonanza d’anima.
Coralmente, altre vite e affetti si intrecciano, in un toccante affresco di concretezza e introspezione, d’indimenticabili figure in confidente umanità, di scenari suggestivi, di vertiginose passioni che nel ritmo serrato degli avvenimenti e nel clima ora estatico e lieve, ora spietato o carnale della narrazione attraversano, incidendole, la vita e la morte.
Fino all’inatteso epilogo, dolorosamente luminoso. Una sospensione palpitante, tesa oltre la vacuità del mondo.
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TESTIMONIANZE ILLUSTRI
Premi sul nome per leggere la testimonianza
Torino, 6 ottobre 2013
Cara e gentile Fiorini,
ho letto con molto interesse il suo bel romanzo, che racconta in modo suasivo ed efficace le vicissitudini della vita e la ventura delle passioni nel trapassare dei tempi e delle esperienze, il tutto finemente attraversato dalla malinconia della morte.
Grazie del dono. Con i più vivi auguri e saluti.
Giorgio Bàrberi Squarotti
Gentile Professoressa,
ho ricevuto e con piacere letto il Suo inedito "Di Bianco in Neve" e l’ho subito segnalato […].
Ritengo, in tutta franchezza, che meriti di entrare nella grande editoria a distribuzione nazionale con tanto di supporto mediatico e di marketing che, però, solo qualche editrice da Roma in su potrebbe garantirLe (?).
L'alternativa è nelle tante editrici medio-piccole che, pur rendendo un buon servizio agli autori, ben raramente riescono a farne dei "bestseller" di livello nazionale e oltre.
Il Suo merito è di aver scritto un libro bello, intelligente, organico, etico pur nell'affrontare la cruda realtà delle vicende narrate. Ma questi sono parsi solo dettagli marginali in raffronto alla forte capacità descrittiva, fluida, avvolgente e nobile nell'uso di quell'italiano che ormai è divenuto un linguaggio decadente e bistrattato.
Non è più cosa facile scrivere bene come riesce a Lei; scrivere come forma di inconscio naturale altruismo, per il piacere del lettore anonimo e sconosciuto; darsi con l'anima scavando nella estetica delle parole e creare immagini che penetrano nel lettore ormai sempre più impreparato a inattesi, improbabili sussulti emotivi dell'animo, per il solo fluire delle parole allorché infuocano realtà e immaginazione.
Mi rendo conto che la mia critica sta andando al di là delle intenzioni, ma forte è la curiosità di leggere gli altri Suoi scritti, per capire se lo stile nasce in Lei spontaneo piuttosto che in funzione di descrizioni passionali di stampo forse autobiografico, ovviamente efficaci, ma che poi dovrebbero scemare nel raccontare ulteriori storie meno coinvolgenti.
Pe concludere, il Suo romanzo merita di essere pubblicato e Le consiglierei di sondare bene come muoversi in ambito editoriale per non disperdere una buona opportunità per i lettori e per Lei.
Auguri, per tutto il bene che merita il Suo "Di Bianco in Neve".
Cordiali saluti e grazie ancora
Giuseppe Laterza
Carissima,
ho portato il tuo libro a spasso tra le nuvole del Mediterraneo orientale e ne sono stato felice perché probabilmente grazie a esso, per una di quelle misteriose magie che solo l'Arte è in grado di dispensare, ho superato la paura dell'aereo: a un certo punto sono scomparse dalla mia atterrita attenzione le informazioni sull'altitudine, la velocità, la temperatura e la pressione, e mi sono ritrovato per le vie di Milano, di Venezia, di Salisburgo, condotto per mano da Viviana, dalla sua personalità ribelle, dignitosa; da Lara, l'amica fedele; dalla disarmante fragilità di Stefano con il suo vissuto di incomprensioni, di mancati ascolti, di un voler essere uomo senza saperlo essere fino in fondo; e poi Manuele, naturalmente: la forza della Musica che informa di sé la persona, l'arte che diventa l'artista con tutte le sue conseguenze.
La storia è bellissima, ma il prodigio vero è la lingua: una lingua nobile, preziosa, che curi con l'amore e la dedizione di un maestro miniatore senza tempo; una lingua sfarzosa, luminosa, chiara, che riesce a passare con la semplicità delle cose grandi dette dai grandi. Una lingua la cui scelta lessicale modella necessariamente l'andamento della forma con un risultato perfetto (mi piace sempre, all'inizio di ogni tua frase, la virgola che prepara una subordinata: in musica potrebbe assomigliare a quelle sottili vibrazioni/modulazioni di armonia e legature che si trovano in Debussy, ma ancor di più in Fauré).
E poi, mi piace moltissimo il modo in cui la figura di Manuele si fa strada: essa non giunge a metà libro, ma appena dopo, in un rapporto spazio-temporale che, da compositore, mi ricorda la sezione aurea...
Questa è una storia che non potrebbe essere raccontata con una lingua diversa, né in forma diversa. Questo è prodigio, Rossana! Grazie per il tuo splendido romanzo. Spero di leggerti ancora…
Joe Schittino
La nutrita partecipazione femminile alla vita letteraria degli ultimi decenni si accresce di una nuova e brillante voce narrativa nel Sud d’Italia, spesso snobbato nel genere, specie se gli apporti sono femminili. Proprio a Taranto vede la luce il delicato e denso romanzo dell’artista Rossana Fiorini, nata a Milano ma da decenni residente e operante nei dintorni della Città dei Due Mari.
Edito da Armando Curcio, il libro reca il titolo candidamente lirico “di bianco in neve”.
Si sostiene spesso che la regione in cui un autore nasce, cresce, vi passa infanzia e gioventù, vi studia, è quasi sempre presente nel suo lavoro anche quando si trasferisce a vivere altrove. Che le radici affiorino comunque e ovunque, non è certo negativo. In più, ricordarle e raccontarle in situazioni ambientali maggiormente favorevoli, ricamando una trama di memorie intime e di vicende vissute, aiuta a riflettere e comporre. Non è dato sapere quando Rossana Fiorini abbia concepito le pagine del suo romanzo, ma non sembri ovvio immaginare quanto abbia influito la tranquillità della sua attuale dimora, lontana dal clamore febbrile e dispersivo della grande città. Franco Cassano, docente sociologo dell’Ateneo barese, ha scritto in un suo saggio “[…] anche la semplice coesistenza delle culture non è mai una banale giustapposizione di esse […]”, anzi, aggiungiamo, insieme realizza reciproca conoscenza , osmosi tra passato e presente, corretta idea di pluralismo.
La Fiorini, che ripetiamo è anche operatrice d’arte, si cimenta adesso con la scrittura impegnata, rivelando la sua propensione all’eclettismo, al mettersi in gioco, affrontando, e assumendola pienamente, questa nuova forma, quale mezzo d’espressione del suo fecondo e potente universo interiore. Introspezione psicologica e squarci a forti emozioni arricchiscono i toni narrativi con dovizia di particolari e precisi approfondimenti, in quanto lo scibile entra in questo romanzo, scandito da felici metafore e da trionfanti impennate poetiche. Ecco rifondarsi un mondo nella stessa rifondata parola provenienti dalla elegante fucina creativa dell’autrice. Si evince uno sviluppo lessicale nuovo e personale, mai edulcorato, un affabulare volutamente non sempre lineare che alterna descrizioni altre e ritorna nell’alveo del racconto, evocando un po’ la maniera inventata e cara a James Joyce, fautore della memorabile svolta della narrativa mondiale. Affermava il dublinese che alla monotonia del dettato preferiva una straordinaria variatio al dettato medesimo.
“Di bianco in neve” è la storia di Viviana, giovane artista (spunto autobiografico), che insoddisfatta della mediocre way of life condotta col compagno - nel tempo divenuto altresì collerico -, sceglie di reagire. Per caso conosce Manuele, un anziano compositore e ne viene sorprendentemente attratta. Provvisorio innamoramento, l’èspace d’un matin? Consonanza di idee? Novità? Sono invece rose che fioriscono rose, metamorfosi del dolore in gioia e libertà. Rossana precisa esplicitamente alla fine del libro “i personaggi tutti e la storia narrata sono assolutamente frutto dell’immaginazione”, in parte, a nostro parere: malgrado la struttura fantastica, molte immagini e personaggi le provengono certamente da conoscenze, magari indirette, da emozioni e luoghi di vita depositati dentro e che riemergono con forza, quasi a volerne riscoprire e magnificare il senso, in stretta direzione letteraria.
In definitiva, la Fiorini, nella recente realtà della narrativa italiana si colloca autorevolmente tra i prosatori moderni dotati di rilevante talento e virtuosismo. Il mistero ciclico ci appartiene e lo scorrere di queste pagine concorre a salvare le nostre speranze, ad alimentare il piacere di una lettura da cui scaturiscono coinvolgenti elementi di meditazione e insegnamenti. Commovente l’ultimo capitolo, tanto da capire come la morte durante e alla fine della vita sia il punto d’inizio di un nuovo segmento esistenziale, pur tuttavia sempre latente, in mezzo a noi, come poetava Alfonso Gatto.
Grazie Rossana, per questo regalo letterario, dopo i trascorsi di artista originale e poliedrica.
Tommaso Mario Giaracuni
Testo pubblicato su “Ultim’ora Supplemento/Arte e Cultura”, 23 settembre 2013.
Gentile Rossana,
davvero bello il suo romanzo, anche per la freschezza dei dialoghi.
Molti cordiali saluti
Massimo Arcangeli
Per i prestigiosi tipi della “Armando Curcio Editore”, la valente artista Rossana Fiorini, già nota per la sua eclettica azione critica, artistica e musicale, esordisce in campo letterario con il romanzo “DI BIANCO IN NEVE”, nel quale la ricerca della bellezza è pervasa da un’ansia di complessità esistenziale dentro cui isolare lo sguardo dell’io narrante, nel dettaglio di ciascuna pagina e avvenimento come nell’aspetto della ordinaria quotidianità dove si evolve e svolge la vicenda e le conseguenti riflessioni del “monologo interiore” della protagonista.
Il tutto elevato a potenza narrativa e lirica, al fine di postulare in leggerezza (di cui alla famosa “Lezione Americana” di Italo Calvino), la sua verità espressiva, quale matrice originale di situazioni, solo apparentemente alienanti, nella loro cadenzata ed evolutiva ragione di vita sincera, che riverbera nella trama e nell’eleganza di scrittura colta, la personalità della molteplicità (Calvino) di una donna - prismatica.
Rossana/Viviana ama la purezza del bianco, rievocandone la “splendida gloria” che Salomone impresse a tale colore, incorporando in esso l’elegia poetica, la grazia e la raffinatezza che la metafora della neve “tutto avvolge di bianchezza ondosa” (incisivo verso di Guido Gozzano).
La vita non può ristagnare nella instabilità e nella creatività proteiforme di un personaggio di donna come Viviana che già nell’arte professionalmente sperimenta, nel necessario ordine, idee, materiali, concetti, turbinii di invenzioni, trovando le diverse pulsioni dell’anima a cui affidare la propria complessità.
Si offusca nella sua mente la convenzionale precisione abitudinaria di un rapporto coniugale che non le riserva alcuno stupore d’alterità. Il falso si svela solo nella monotonia della banalità consolatoria che aleggia nel contesto, ma che nella elaborazione del personaggio di Viviana, viene sublimata come frontiera dell’altrove.
La storia piana e naturale nel suo svolgimento, ha da frantumarsi nel valore liberatorio di un mistero, al quale affidare minore coralità di genere (dove l’adattamento diviene livellamento di gesti, azioni, coscienze) al fine di perseguire un abbandono intellettuale, che assume il pieno coraggio della propria intimità, nella individuale avventura dello spirito, da affrontare fino in fondo.
Tralasciata l’epica strumentale del quotidiano, che opacizza le figure del marito e del figlio, pur fedelmente presenti, l’intero bianco del mondo si manifesta all’improvviso nel volto e nella mai canuta figura di un imprevisto amore “doppio”, nell’età dell’uomo affascinante (Manuele), nella sua maturità interiore, nella sua saggezza, nel suo rivelatore messaggio musicale. Nello spartito della vicenda il canto bianco troverà a forma di note il nero di un lutto straziante nel commovente episodio relativo alla perdita del padre di Viviana.
La necessità di giungere e probabilmente sciogliere l’enigma con sé stessa, che si rivela sempre più insidioso e complesso, il desiderio di non perdere la verità, la pericolosità di ridisegnare il proprio io, ignorano ciascuna conseguenza, ma rappresentano la meta, la vetta da conquistare.
La ragione è la risposta di ogni sua controversa dimensione del reale quanto del surreale, vivacizzano il tessuto narrativo e le implicazioni filosofico esistenziali.
Ogni azione, ogni scelta, ogni umiliazione (compresa la violenza che subirà dall’ignavo consorte), aspirano a un’armonia superiore per la quale la scelta di Viviana perde i contorni dell’ego per esprimere dalla propria esperienza un valore certamente più corale.
Anche l’eros si afferma in leggiadri valori estetici ed estatici e la raffinata scrittura si esplicita idealmente, coincidendo alla stessa impalcatura dell’opera, armonicamente concepita e che assimila la protagonista come donna e come artista.
L’ideale antologia di vita e di creatività spinta verso l’ignoto, nella splendida metafora di una vicenda certamente letteraria, ma squisitamente esistenziale, nelle ricche sfaccettature del personaggio che ha sempre voluto distinguere la verità dall’apparenza, insegue un destino preordinato nel coraggio e nella tragica evoluzione della storia: nella finalità di un “trattin d’union” che anticipa la parentesi, come segno d’interpunzione ma anche come inevitabile catarsi.
L’”ingorgo coniugale”, come la stessa autrice definisce la situazione di Viviana, troverà spianata la strada di una parziale felicità fra “picchi, merletti e corone rocciose del Gruppo Dolomitico”, motivo trainante e affascinante di BIANCO (“colore sfacciato del pudore” nella definizione di Tommaso Landolfi) e di NEVE, quella che spinge Francois Villon a dire: “Ma dove sono le nevi dell’altr’anno?”.
Viviana e Manuele ne attesteranno l’inevitabile scioglimento, cosicché le bianche pagine accoglieranno le strazianti evoluzioni epistolari con le quali riportare a conclusione l’universo intero di un amore memorabile, e redimere vita e opere, tra fogli, tele, spartiti e metafore letterarie.
I confini naufragano nell’infinito dell’eleganza di una scrittura, quella di Rossana Fiorini, raffinata, caleidoscopica, fluente e creativa in ogni passaggio. In essa ella vagheggia una storia delicata e fuori dagli schemi, dove l’uso della memoria come flusso e indagine interiori, sempre aperta per riflesso alla paradigmatica personalità della protagonista, si accosta con la sua sperimentale opera artistica diffusa tra gallerie e rilevanti mostre. La propensione professionale volta alla scelta artistica installativa che colloca montaggi, idee e messa in opera di azioni artistiche con i più diversi materiali, rispecchia anche sul piano letterario il valore di un racconto che ha abiurato cornici, prospettive e obbligate dimensioni, per ergersi in una visione circolare, nella quale il lettore dovrà interagire direttamente con l’opera.
Gianni Amodio
Testo pubblicato su “Ultim’ora Supplemento / Arte e Cultura”, 23 luglio 2013.
Giustamente questo romanzo ha riscosso immediatamente curiosità e consenso intellettuale, ponendosi - nel magma di un italiano trascurato, se non addirittura strapazzato e offeso da più parti - come un gioiello, nell’elevato e generoso uso della parola scritta, mai banale o casuale, sempre fluente, convincente, molteplice, sia nella veridicità che nel lirismo che nella sensualità.
Ma non solo…
“Di bianco in neve”, già il titolo prelude al dispiegarsi di una interazione sensibile tra la dimensione dell’anima e la dimensione della quotidianità. Esperienza del reale, dunque, non passiva, bensì scavata, evocativa, profondamente pregna di un’interiorità capace di legittimare slanci, percezioni, sensibilità, ardori.
In questo duplice contesto di oggettività e intimismo, attraverso, come si è detto, un materiale linguistico denso, prezioso, di grande spessore espressivo e narrativo, si sviluppa la storia: un tessuto pulsante d’ombre e di luce, a testimoniare la vita, quella vera, quella violentata e benedetta, quella che non sta in superficie, ma accoglie, motivandola, l’universalità del sentire.
Una storia pervasa da un’energia tesa al massimo del fervore quanto della fragilità, tanto che si modella in virtù di una cocente alchimia esistenziale che, nelle sue dinamiche trafelate, ci accomuna tutti, e a tutti consegna una confidente libertà di tenerezza.
Una storia da non perdere, per quella compenetrazione di emozioni che ci arriva con ferocia e poesia, attraverso azione, sentimenti, insuperabili affreschi di natura… In una caratura di estrema umanità.
Alessandro Nava
Testo pubblicato su “StarsSystem Magazine”.
Si dice spesso che ogni libro sia un viaggio. Ed è vero. Verissimo per il romanzo di Rossana Fiorini che inizia proprio con “Viaggiavo in una seconda classe…”
E immediatamente anch’io sono entrata in questo viaggio subito affascinata dallo scorrere delle parole, dei paesaggi oltre i finestrini, della vita che ho sentito pulsare all’interno del vagone del treno… E ho vissuto i panorami mirabilmente descritti dall’autrice come pitture che scorrono sulle pagine e davanti ai nostri occhi con una potenza e una forza non della scrittura che si presta alla rappresentazione pittorica, né della pittura che si trasforma in scrittura, ma direi un impasto di parole e immagini che si fondono così tanto da essere cosa unica.
Ne viene fuori un messaggio artistico concreto e reale perché ha forme quasi che puoi toccare, ha colori da gustare ma anche, per il suo notevole potere evocativo, ha suoni, perfino fragranze… Insomma, ha un’anima, come amo dire quando m’imbatto in letture come questa del romanzo della Fiorini.
Una grande, quindi, potenza descrittiva, e non solo di paesaggi. Infatti, entrando nel racconto, pagina dopo pagina, ogni entità descritta, che sia cosa animata o da sempre considerata inanimata, si riempie di vita e di dignitosa identità. Ogni piccolo essere è importante per l’autrice, persino un tarlo; questo insetto tanto disprezzato, banalissima figura per niente banalizzata dalla scrittrice, diventa un elemento evocativo dell’infanzia, di momenti vissuti con persone care, come la nonna, di antichi e teneri profumi, come quello della crostata di mandorle…
E ancora, la minuziosa descrizione di una colazione: incantevoli nella loro semplicità, le immagini del latte accuratamente mescolato col cacao e versato in un “tazzone giallo a grandi pois verdi e rossi” che lo fanno somigliare, scrive l’autrice, a un semaforo piazzato sulla tavola per offrire buonumore. Qui ho davvero gustato anch’io il latte, e ho sorriso. E mi sono fermata, ecco. Mi sono fermata per assaporare ancora meglio e per godermi il mio stesso sorridere… E tutto ciò è una meraviglia.
Quando un racconto riesce a farci riprendere in mano una parte del nostro tempo, quando ci costringe benevolmente a guardare piccole cose che nel vortice dei nostri giorni consideriamo scontate in un tutt’uno col paesaggio che attraversiamo senza vedere, direi che si è compiuto pienamente il miracolo della scrittura.
E arriviamo ai personaggi, la protagonista e tutti gli altri. Pure a loro, più che mai, la scrittrice dedica sguardi precisi e curati. Ce li mostra, li delinea; di loro sappiamo i dettagli, e li apprendiamo senza annoiarci, anzi, è sorprendente poterli immaginare istantaneamente, tanto da avvertire la loro materiale presenza che, come il tarlo, come le nuvole, come le tazze, non sono passanti inconsistenti in una pagina di libro, bensì realtà caratterizzate direttamente, con una loro precisa personalità, una collocazione fisica e spirituale, nello spazio e nel tempo. Sono presenze delle quali percepiamo la storia, anche quella non scritta, anche quella prima e direi quella dopo il nostro incontro con loro. Perché Rossana Fiorini, nella “fatica di acconsentire alla vita”, vuole rendere ai nostri occhi “la forma del senso interno”, quel senso che spesso perdiamo per una fretta stupida di vivere che abbiamo sviluppato o per una forma di cecità contagiosa che ci rilega nello “stato dell’uguale, dell’uniforme, fino a rendere indistinguibili euforia e costernazione, diletto e sconforto”.
Sin dalle prime pagine ho avuto il piacere di assaporare uno scrivere che è unico e che evidentemente individua l’autrice e la definisce. Ed è uno scrivere ricco, intenso, elegante, uno scrivere capace di scavare fino ad arrivare all’essenza dei fatti, delle situazioni e delle persone.
Ma ciò che più colpisce di questo scavare è che ti porta in profondità senza perdere di vista o colpevolizzare la superficie. Voglio dire che, nel suo scrivere penetrante e dettagliato, l’autrice non si serve delle armi di una drammaticità comoda o piagnucolosa, spesso scontata, ma è lucidamente secca, precisa, ironica, moderna, priva di fronzoli letterari e diretta, tale da interessare subito e coinvolgere in una sorta di aspettativa, in un patimento interiore disincantato e senza facili lacrime, un patimento nell’affrontare ciò che la vita presenta al nostro vivere quotidiano, con fermezza e vigore, con la valutazione istante dopo istante delle possibilità di speranza che possiamo mettere in questo vivere, con la certezza di possedere un’autonoma forza e una volontà per intervenire in maniera tale da diventare gli autori della risoluzione dei nostri conflitti, i decisori, mi sia concesso il termine, delle nostre esperienze.
Esperienze che, nel racconto, non sono esperienze eccezionali, ma esperienze di tutti i giorni. Visitate e guardate con una specie di lente d’ingrandimento capace di renderle degne di essere narrate, perché nel quotidiano si forma e si definisce, in definitiva, la vita.
La protagonista è donna. E direi naturalmente. Non poteva essere altro.
Da subito il racconto mette al nostro fianco Viviana, col suo, “essere per forza donna, figlia, amante, amica, creatura della vita e non del nulla”. Creatura capace, quindi, di accogliere, conquistare anche perdendo, elaborare, e soprattutto pretendere perché guadagnato, perché umano, perché ovvio, perché naturale. Pretendere cosa? Il proprio spazio nei giorni, nel lavoro, nella città, nell’arte, nei sentimenti. Pretendere l’affermazione di tutti i suoi possibili ruoli, giacché ognuno meritevole di essere libero di svolgersi, di concretarsi, senza gridi, senza guerre o disperazioni; ruoli che la protagonista sente normali, dentro di sé, e si meraviglia dell’ottusità delle persone che la circondano, ognuna per suo conto, che intervengono nella sua esistenza a modificare questi ruoli, ad avvilirli, ad arginarli, a volte addirittura a proteggerli, come i genitori che le nascondono lo stato di malattia del padre per evitarle momentaneamente sofferenza. Però lei vuole soffrire, lei ha la sua forza per soffrire e reclama che le sia riconosciuta tutta intera.
Pertanto, cade ma si rialza, patisce ma cerca cura, vede violenza, subisce violenza, la condanna ad alta voce con coraggio.
Incontriamo dunque una Viviana decisa nelle sue decisioni, capace di concedersi al sentimento senza da esso dipendere. Una Viviana in grado di auto governarsi eppure al tempo stesso capace di amare senza sopraffare, nel rispetto della libertà dell’altro, che è, in definitiva, una forma suprema d’amore. Una Viviana che potrebbe essere ciascuna di noi, non illustre, non diva, non famosa, ma che porta in sé l’energia delle arti come la pittura, la scultura, la musica, che la rendono ricca o ancora più ricca. Perché la rendono regina nel suo regno affollato di attrezzi del mestiere, il suo solaio-atelier che è in simbiosi con lei, che alla fine alloggia quasi dentro di lei in una forma di comunione dello spirito. E qui ravviso forte il messaggio che spesso tutti proponiamo, come le arti, queste nobili discipline, siano armi efficaci e meravigliose per curare, sanare, determinare cambiamenti in positivo, dare la sicurezza di non essere soli e di potercela fare: “Il mio regno. Lì il deserto non arrivava mai a cancellarmi. Lì non invecchiavo. Lì il lato brado e quello mansueto di me si desideravano vicendevolmente senza soggezione e senza smentite.”
E ancora Viviana è colei che sceglie la maternità pur non desiderata e prevista; così come non l’aveva scelta, così sceglie di accettarla: “Quale imputato e giudice e carnefice e vittima, […], rinunciando a ma stessa, stavo, secondo natura, difendendo il mio cucciolo. Col custodirlo, accettavo dunque la terribile normalità delle conseguenze: la maternità. Quella favola coatta, insinuante e fatidica; un’elevazione data del detrarre, l’amorevole neutralizzarsi di chi esiste in chi inizia ad esistere, attraverso un mistero intrecciato.”
Viviana è perciò donna che si neutralizza, ma amorevolmente e con coscienza del nuovo amore e in questo neutralizzarsi continua a confermarsi protagonista del suo destino.
Procedendo nelle pagine, assistiamo a una donna sempre presente a sé stessa e a quanti la circondano, marito, figlio, genitori, amica; è stanca ma instancabile, ha risposte da dare e tempo da dedicare a ognuno, nel pieno rispetto dell’identità e della volontà altrui: “sostenere e stimare la diversità dell’altro, non subissarla, ecco il mio vangelo”. Un vangelo che, ovviamente, rivendica anche nei confronti della sua persona.
Quando il suo uomo non sarà più il suo uomo e non più il suo compagno affettuoso, ma un violento, anche allora lei, donna, si sforza di capire, di riconoscere le sue eventuali colpe; cerca di trovare giustificazioni e motivi alla prepotenza, al divieto, alla richiesta di sottomissione, continuando a lottare, rifiutando con decisione l’alienazione dal suo essere. Fino al limite della violenza che diventa insopportabile perché non è più soltanto male fisico quanto, “male dell’anima”, che è l’esatto contrario di tutte le possibili definizioni dell’amore. L’amore che, invece, per Viviana è: “atto creativo, non provvisorio, prodigioso e intollerabile, insidiato da complicazioni e tranelli, ma sempre plasmato sulle tracce della tenerezza”. Ed è proprio questo l’amore che la giovane cerca spinta da “un’eco di dedizione, un retrogusto di umanità, un’istigazione di dolcezza trascurata”.
Un qualcosa che diventa “integrità, permanenza oltre le dislocazioni, oltre gli episodi, oltre il fare e disfare della vita”. Qualcosa insomma che sia armonia, che ci renda alla vita per quello che siamo, con le nostre grandezze e le nostre piccolezze. Qualcosa che ci avvicini in una sorta di testimonianza di noi stessi e poi di condivisione dei nostri desideri, delle nostre speranze e della nostra libertà in “un’onda di consorziali analogie”, che ci permette di “passare per la vita non stando nei dintorni, da protagonisti invalidati” ma “come motivi di più ampia entità”.
E alla fine Viviana è donna “arresa e protesa, nervosa, umile e trionfale”. È “ala di pensieri capace di liberare l’eco di una disperata tenerezza esistenziale, di una parola troppo profonda per essere semplicemente espressa”.
È con questa frase meravigliosa che desidero concludere, ringraziando l’autrice perché nel suo romanzo ho trovato molte parole… “troppo profonde”… come direbbe lei, ma espresse… così bene espresse da arrivare a toccare l’anima.
Maria Antonietta D’Onofrio
Non mi voglio addentrare nelle tante problematiche che ancora oggi la condizione femminile presenta e che attraversano il libro di Rossana Fiorini: la maternità, la violenza, la necessità di conciliare famiglia e lavoro, problematiche che sembrano scontate ma non lo sono, perché sono la spia che un conflitto esiste ancora. Eppure è proprio in una società così, che è importante che la parola sempre di più mantenga la sua forza e la sua luce. E’ importante che attraverso la parola noi continuiamo a cercarci, per raggiungere e amare interamente la nostra complessità . E’ importante fare appello al nostro specifico sentire femminile, ai nostri saperi, alla nostra istintualità.
Le storie raccontate dalle donne sono spesso ambientate nella quotidianità familiare talvolta lacerata e problematica, con un’attenzione particolare al contesto sociale. Grandissima è nelle scrittrici la capacità di introspezione e analisi dei sentimenti dei protagonisti, in modo che il loro “microcosmo” interiore e familiare diventa paradigma del mondo che le circonda. In questo senso, quindi ritraggono con uno sguardo quasi più lucido e spietato di quello degli uomini.
Il romanzo “di bianco in neve” si inserisce perfettamente nel contesto che ho delineato: è la storia di una donna, che si avvia come una qualunque storia d’amore felice: fidanzamento, figlio, matrimonio, ma ha un epilogo tragico e, purtroppo, molto in linea con la cronaca dei nostri giorni.
Le figure femminili sono sapientemente descritte e orchestrate: Lara, l’amica del cuore talvolta diventa alter ego della protagonista-autrice, che sembra monologare con se stessa, più che dialogare con l’amica; la nonna depositaria di una tradizione che, in tutti i contesti familiari è spesso affidata alle donne e che si concretizza in una casa, nei suoi oggetti, anche quelli di pessimo gusto, conservati per anni nei medesimi posti, a rappresentare la ciclicità del tempo che nella tradizione diventa quasi mitico, la saggia mamma che conosce la figlia e le ricorda come, ancora oggi, sia spesso necessaria alle donne una certa remissività, se i rapporti, i matrimoni, le esistenze vogliono procedere insieme, senza scollamenti, divisioni, separazioni.
La maternità viene vissuta in un’atmosfera di tenerezza, come è naturale, nella dimenticanza della propria femminilità, come spesso succede e, sempre secondo copione, il padre diviene geloso del figlio prima e poi della ritrovata femminilità della moglie, che conciliando lavoro e famiglia si reinserisce nella vita sociale e lavorativa.
Da qui la violenza: il fidanzato carezzevole, il coniuge premuroso diventa il violento, uno dei tanti di cui le cronache sono piene. Tutto ciò non avviene in un contesto deprivato socialmente o culturalmente: la vicenda appartiene al mondo dell’alta borghesia, è un professionista stimato e insospettabile l’autore di tante brutture. “Ridimensionarti”: parola chiave del maschilismo, qual è la dimensione giusta di una donna? Solo quella suggerita dal marito? O da una serie di convenzioni, lentissime a morire? “Moglie ammainata nei ranghi più confacenti di servilismo e docilità”. Nel libro appare chiaro che certi atteggiamenti sono frutto di un’educazione errata, di un falsato rapporto madre-figlio. La donna per quanto autonoma, colta intelligente crede che l’unica via possibile per una composizione dei conflitti sia l’indulgenza, quell’indulgenza di cui le femmine sono infinitamente capaci. Ma la protagonista non accetta di rinunciare a se stessa, al suo mondo, al suo carattere e modo di fare, e il rapporto si risolve in un’escalation di violenza e sopraffazione, di scontri in cui ognuno cerca di far prevalere la sua visione del mondo. Da parte dell’uomo c’è in più la forza fisica, che non esita ad adoperare per pentirsi subito dopo, in un cliché consueto, come ci confermano le tristi cronache di questi giorni.
E’ inevitabile per la protagonista rifugiarsi in un nuovo amore, ma più che la trama del romanzo sono interessanti altri aspetti. Innanzitutto il rapporto strettissimo con l’arte: la nostra autrice è un’artista, non solo una letterata e così pure la Viviana del libro, e questo rapporto con l’arte è sicuramente fondamentale nella narrazione. L’arte e la musica sono i due antidoti ad una condizione esistenziale diventata insopportabile: l’espressione artistica diventa la valvola di sfogo, anzi la creatività della protagonista trova nuovo impulso da una vita che non tollera più, fatta di tensioni e di conflitti continui.
Ut pictura poësis, diceva Orazio: locuzione che spiega bene il legame tra queste due espressioni di sentimenti e di visioni dell’esistenza. Immagini e parole, arte visiva e letteratura si intrecciano in tutto il romanzo: per la nostra protagonista le realizzazioni si mescolano alle parole (a quelle con cui ci narra la sua vicenda, a quelle con cui comunica quasi febbrilmente con il suo entrante amore), come a sperimentare una pratica di conversazione obliqua, fatta di riflessi, corrispondenze.
La musica scatena “un nodo di passioni e collisioni”, è l’arte praticata da Manuele, l’uomo di cui si invaghisce ed è da vera conoscitrice la sensibilità con cui Rossana Fiorini riesce ad esprimere e a parteciparci le sensazioni profonde che la musica suscita, al di là di ogni conoscenza tecnica.
Lo stile è molto particolare: la ricercatezza del lessico è tesa a non rendere mai banale l’espressione dei sentimenti della protagonista, che scava nella sua anima ed esplora stati d’animo, e li condivide con efficacia attraverso la scrittura. C’è tanta voglia di raccontare e raccontarsi, e in questo ambito la sensibilità femminile gioca, secondo me, un ruolo fondamentale, per la capacità di approfondimento psicologico e il saper cogliere tutte le sfaccettature di una storia, in una struttura che è più vicina al frammentismo che non ad una costruzione organica tradizionale: l’urgenza dei sentimenti scaturisce così da ogni pagina.
La narrazione non è mai banale, per esempio la maternità viene presentata in tutta la sua complessità e ambivalenza: non appare ingabbiata nei luoghi comuni di una serenità semplicistica e patinata, ma si sottolinea la solitudine della donna di fronte a un evento che cambia e sconvolge la vita, anche per l'impossibilità di mediare e comunicare un disagio considerato "inaccettabile".
La vicenda si sviluppa in varie città, di cui l’autrice sa cogliere soprattutto le atmosfere, indagando nel suo animo lungo le vie di Milano o sulla gondola a Venezia, per le strade di Salisburgo o tra i boschi del Trentino, con quello che dovrebbe essere il vero sguardo del viaggiatore, che non è non un semplice catalogatore di luoghi e monumenti.
In una società segnata da un’involuzione culturale, dove si dà ormai per scontato che non ci sia più una questione femminile, o meglio dove le problematiche della condizione femminile sono ridotte al consueto bla bla inconcludente dei talk show o ad argomenti di cronaca nera, in una realtà in cui si scambia la leggerezza di cui parla Italo Calvino con la superficialità, e la “rivelazione” con l’esternazione, il rischio è che la parola femminile si addomestichi e perda la sua forza dirompente, che non incida più, non sia più chiave d’accesso alla più intima realtà dei sentimenti.
Di bianco in neve rappresenta allora un efficace e raffinato mezzo introspettivo, una voce intima e sensibile che non dimenticando l’attualità e la concretezza del quotidiano, diventa la storia di un’anima ferita, ma anche entusiasta e appassionata, autonoma e propositiva, come solo le donne sanno esserlo.
Vittoria Tomassetti