“Intorno al 1980 Rossana Fiorini ha esordito scegliendo un campo di appartenenza estetico al di fuori e al di sopra di puntuali tendenze dell’epoca (la fine del concettuale e l’inizio della trans avanguardia, in fasce sempre più larghe), ma anche non ignorando il cammino delle avanguardie storiche, dal costruttivismo alla minimal art, da un certo neo purismo astratto per via materica ai ferri corti con materiali industriali da lavorare con spirito artigiano, tridimensionalista.
Punto fondamentale è stato, e ha continuato a essere, la tendenza di far rispondere a qualunque pensiero pittorico, a qualunque messaggio, la soluzione formale astratta, o mimica, o allusiva, e, in fondo, polivalente, privilegiando elementi e rilievi, dando al soggetto uno spazio di recita dentro un teatro d’avanguardia, con prospettive, dunque, prive di una logica ottica, con l’utilizzazione dell’oggetto trovato (dadaismo), e la maniera di stravolgerne l’impiego (pop art statunitense e nuovo realismo francese).
Folti sono sempre stati quindi i mezzi di racconto scelti fuori della tradizione di cavalletto e tutti concorrenti a quell’ordine e quella fiducia dell’aver veduto, lo specchio di una meditazione. Tuttavia non sono mancate, specie nei primi cicli produttivi, parti disegnate e dipinte iperrealisticamente; nonché merceologie a vestire le sue figure, trompe l’oeil all’incontrario e cioè di mentire non col segno il filo, ma col filo il segno”.
• “Fondamentale è sottolineare che la Fiorini, nell’ambito appunto dell’opera-oggetto si è sempre mossa con una sua specificità di individuazione e di rilancio semantico del ready made. Non innalzandolo a feticcio né a reperto, più o meno archeologico, e neppure provocando una sedimentazione di materie già usate, come nei poveristi di Celant. Piuttosto, spiazzando dal loro contesto un inventario sconfinato di roba, e assumendola nel lindore luminoso e metafisico del suo sguardo di trasformatrice, tanto che uso, funzione dei relitti non solo vengono annullati nel trapasso iconico e in tale operazione l’insegnamento di Duchamp è diretto, ma, dopo questo annullamento, vengono esaltate peculiarità cromatiche, materiche, di luce, al punto che, alla fine, l’oggetto trovato prende volto proprio come in virtù di una radicale sua creazione.
Si guardino di questi oggetti così miti e così vendicativi - nel senso che la vis a lungo riposta in ciascuno, d’amore e di fiducia, di purezza e di libertà dell’immaginazione è implacabile e viene fuori come colmo di messaggio - le sostanze, numerose e difformi chiamate a collaborare; che, in qualche modo, fanno già favola e discorso: bozzelli di navi da guerra, circuiti elettronici, pannelli stampati, sagome, profilati, componenti meccanici, legni, sugheri, carta da imballaggio, terre, piastrelle vitree, corde, cavi, chiodi, sfilze oscillanti di anelli, spilli… E inoltre veri e propri resti e schegge della natura: ossa, rocce, terra, sabbia… Il tutto in una sorta di miraggi-insegna, di incantesimi di questa incredibile fattucchiera capace di realizzare strumenti irregolari di grande unità.
E’ raro trovare una più felice compresenza, in un’opera neo-duchampiana, di cose inerti e di cose della fantasia, marchingegni che, puramente elencati, potrebbero suonar “lenti”, irrecuperabili addirittura e che invece esprimono il miracolo di una presenza improvvisa, anzi di una combinazione vivente in virtù della rapita confidenza di questa operatrice estetica nell’assurdo. Le cose evocate scattano, Duchamp chiede perdono di aver corrotto tanto, di aver fatto rischiare tanto alla sua amatissima utopista e ringrazia”.
Da catalogo: Marcello Venturoli