Il Classicismo modernissimo di Jago

A un fenomenico talento esecutivo, Jago unisce una conoscenza approfondita e complice della contemporaneità. Lui stesso asserisce: “Mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione, ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il legame con il mondo è fortissimo. Guardo ciò che mi circonda, gli dò forma e lo condivido”.

Ed è vero. Nella didattica delle immagini o nelle immagini di una rinnovata didattica, egli abita l’arte elevandola ad assoluta esperienza di vita, poco o nulla volutamente legata alla carriera e al mercato, quanto invece alle umane vicende.

Il marmo che plasma prodigiosamente sino a un iperrealismo strabiliante non sottintende eccesso di evidenza, iperbole di un reale più reale del reale, non si qualifica in proprietà di virtuosismo fine a sé stesso, va bensì letto quale enunciazione di un registro emotivo, in grado di accantonare il piano del racconto esibito in favore di uno spazio interiore.

Jago – Il nuovo Michelangelo secondo The Guardian

The Guardian l’ha definito “il nuovo Michelangelo”. Lui si schermisce dietro una normalità per noi inimmaginabile: “sono solo curioso e mosso da grande entusiasmo”. L’entusiasmo del giovane ciociaro Jacopo Cardillo (1987), che in arte ha sostituito il suo nome anagrafico in Jago e che, ormai famoso, si muove nello scacchiere internazionale con oculata strategia personale. Infatti, lo scultore è anche imprenditore: produce, vende e crea opportunità di lavoro, dando indipendenza, intraprendenza e altruismo al suo agire. Attraverso l’impiego di video e social network, stabilisce altresì un’interazione sensibile con il pubblico il quale diventa parte dinamica nel processo generativo. È un dialogo col mondo, il suo, totalmente individuale e confidenziale, non affidato a mediazioni terze. “Non sono nato con il privilegio di poter perdere tempo e quindi ho deciso di avviare un percorso diverso: ottimizzare, dare un senso immediato alla mia predisposizione naturale, quella del fare, occuparmi di scultura. Fin da bambino sapevo ciò che avrei voluto essere”.

Efficienza e industriosità maturate forse anche a causa di un evento emblematico, occorsogli a ventiquattro anni, quando il curatore Vittorio Sgarbi lo selezionò per la 54esima Biennale di Venezia. Il ragazzo, all’epoca, era studente del secondo anno all’Accademia di Frosinone e il suo professore di ruolo non apprezzando il prestigioso invito anzi, sostenendo presuntuosamente che solo lui insegnante fosse nelle condizioni di giudicare capacità e preparazione, cercò di distorglierlo. Ovviamente Jacopo, superando l’intrusione, aderì comunque all’imperdibile evento biennalino, ma non senza legittimo turbamento. Vieppiù, dopo l’assurdo episodio, i rapporti col docente si inasprirono drasticamente, logorando la comunicazione, compromettendo l’andamento degli studi e culminando nell’abbandono del corso. Fortunatamente, la conseguente frustrazione si trasformò in limo fecondo a incrementare risolutezza e aspettative., impegnandolo in una ricerca soggettiva e febbrile. Si può pertanto attestare che Jago, in definitiva, sia cresciuto e maturato artisticamente in maniera autonoma, quasi autodidatta, acquisendo determinate competenze in assenza di maestri e fuori dalle istituzioni deputate, ispirandosi costantemente all’antico sublime mestiere dello scolpire rinascimentale e all’imprescindibile confronto che esso scatena. Confronto non come emulazione: come intento di superamento, sfida morale atta a interpretare con la testimonianza della passione. Di più, Jago opera attraverso allusioni che addirittura evocano in modo dissacratorio l’identità originale (di fatto irrimediabilmente assente), un modo autentico e, nella sua accezione, attualissimo. Evoca, chiaramente oltrepassandole, concezioni e visioni tradizionaliste e autoreferenziali, che con lui evolvono in temeraria competizione.

Preminente per Jacopo Cardillo è poi la convinzione della centralità del genere umano e della dignità dei corpi, del loro essere cavie e manifestazione dei nostri supplizi e del tempo che scorre pur se, nella sua analisi, non emerge grido di dolore che resti tale e non traspare narrazione che non scandisca maestosa e decisiva sacralità. Risultati eccezionalmente assurti nell’olimpo del tutto tondo, nella più integrale e inequivocabile perfezione, da far pensare che la sua esperienza, la sua portentosa abilità tecnica sia, come è, irripetibile.

Nel Rione Sanità, a Napoli, sorge la chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi. Parrocchia rimasta per molti anni in stato di abbandono, risplende oggi in veste di Museo privato del geniale artista che, con determinazione e lungimiranza, nel 2022 l’ha interamente ristrutturata, risignificandola. Nei suoi suggestivi interni, i capolavori di Jago si insertano mirabilmente all’architettura, grazie a una regia intima e penetrante che si fa gesto sorgivo, commovente possesso esistenziale. Nulla appare effimero o fragile, neanche la luce, neanche le ombre. Chiari e scuri, prossimità e lontananza, rughe e spirito, storia e preghiera… solo un equilibrio incondizionato tra questi elementi può commentare, e denunciare, e provocare, e comporre un’opera-ambiente che diviene luogo di verità e insieme spettacolo di sé stessa.

Alla vocazione e all’intelligenza di Jago vanno inoltre accostate un’acuta ironia e una sottile capacità di coniugare rimandi, parallelismi, citazioni colte, ribaltamenti di prospettive, stimolando provocatoriamente nei fruitori una cosciente attenzione alle tematiche conflittuali del presente, alle condizioni sociali spesso drammatiche o stranianti.

Un’ulteriore cifra lo contraddistingue: la texture delle superfici, che si esplicita palesemente man mano che ci si avvicina alle figure marmoree. Si scopre così una pelle capillarmente tessuta, un’anatomia fremente sia nella bellezza della gioventù che nel disfacimento della vecchiaia. Una sorta di veemenza delle carni rivelate senza filtri e senza difese nel continuo gravitare delle stagioni e degli accadimenti. Quasi una confessione, piena d’amore e di armonia, di fascino e di compiutezza malgrado la precarietà insita nel messaggio. Sì perché la transitorietà è vittoriosa, in queste creature, e induce a cogliere l’eternità dal pudico, rapido, meraviglioso strazio del vivere.

Leggi qui altro su Art